

Brand activism e Pride Month: rainbow washing o concretezza?
Come i brand celebrano il mese dell’orgoglio.
Il Pride Month viene celebrato ogni anno nel mese di giugno in onore della rivolta di Stonewall del 1969, il primo passo verso una svolta decisiva per il movimento di liberazione LGBTQ+ negli Stati Uniti e, successivamente, in altri paesi (anche se, purtroppo, ci sono alcuni stati restii a fare progressi).
Dal 1970, le persone LGBTQ+ hanno continuato a riunirsi annualmente per marciare e manifestare per la parità dei diritti.
Lo scopo del Pride Month, o mese dell’orgoglio è quello di riconoscere l’impatto che personalità di questa comunità hanno avuto sulla storia a livello locale, nazionale e internazionale e di dare loro la possibilità di riunirsi per “commemorare le rivolte di Christopher Street in cui a migliaia sono scesi in strada per manifestare contro secoli di abusi, ostilità del governo, discriminazione sul lavoro, sugli alloggi e leggi anti-omosessuali” (Christopher Street Liberation Day Committee Fliers, Franklin Kameny Papers).
L’era del social, in cui tutti sono portati ad avere un’opinione, ci ha insegnato a correre dei rischi, anche se questo implica la possibilità di non piacere a tutti. Per questo i consumatori si aspettano che le aziende ed organizzazioni agiscano e prendano posizione su temi di interesse sociale. Nasce così il brand activism, fulcro fondamentale nella messa a punto delle strategie di relazioni pubbliche. Tanto più i temi sono polarizzati, quanto più è necessario muoversi con cautela quando si decide di scendere in campo partecipando attivamente alla discussione. Per evitare di incappare nell’opportunismo sociale a mero scopo di marketing e in quello che viene definito “socialwashing”, e nel caso del Pride Month, “rainbow washing” (neologismo che descrive la strategia di accostare un brand alle istanze LGBTQ+ in modo da ottenere visibilità agli occhi del pubblico e incrementare le vendite), è importante che vi sia assonanza tra i valori fondanti del brand, i messaggi veicolati e le azioni intraprese. Iniziative condotte in modo estemporaneo, discontinuo o non coerente con l’evoluzione del brand possono comprometterne la credibilità in quanto percepite come strumentali da parte dei consumatori. È bene ricordare, quindi, che l’autenticità è un requisito inderogabile del brand activism.
Attraverso campagne di comunicazione, progetti ad hoc ed investimenti mirati, supportati da solidi valori e azioni concrete, sono svariati i marchi che entrano in campo con il proprio brand activism per affrontare i temi del civismo, differenziandosi da chi, invece, fa di temi controversi una bandiera “one night stand”, relegata al fenomeno social del momento.
Sono numerosi i brand che, in tutto il mondo, si colorano d’arcobaleno, per celebrare la libertà di essere semplicemente sé stessi e che sposano la causa con iniziative concrete. Per esempio, The North Face che, in Italia, ha scelto di collaborare con GAYCS (dipartimento nazionale di AICS – Associazione Italiana Cultura e Sport); Etro che, in occasione del Pride Month, tinge d’arcobaleno l’iconica Pegaso Bag e devolve il 20% dei proventi a Casa Arcobaleno (struttura protetta a Milano, dedicata all’accoglienza di ragazzi discriminati dalle famiglie); ed ancora, Mattel, con le sue apprezzatissime carte di UNO che diventano Pride e si schierano con MaiMa, un’associazione italiana impegnata nella promozione delle tematiche LGBTQ+ nelle scuole. Questi e molti altri marchi si impegnano a supportare la lotta per i diritti civili della comunità LGBTQ+ dando vita a collaborazioni con associazioni attive su questi temi.
E, sia chiaro, i prodotti “rainbow” non sono per la comunità LGBTQ+, ma per TUTTI (o perlomeno tutti coloro che son ben lieti di supportare la causa)!
Articolo a cura di Chiara Uzzanu
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