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Brand Bravery e Unconventional Marketing: rivoluzioni e successi

Quanto paga l’essere audaci?

L’eterno dilemma dei brand è se e quanto spingersi oltre i confini del “tradizionale” e puntare su strategie di marketing e comunicazione innovative per conquistare le proprie audience. Se per alcuni la zona di comfort è una garanzia irrinunciabile, per altri invece è il posto più pericoloso al mondo.

Quanto è premiante, dunque, per i brand deviare dai percorsi già tracciati e varcare con audacia le frontiere del convenzionale? Introdurre approcci nuovi può rivelarsi molto rischioso e la domanda che sorge spontanea è: il gioco vale la candela?

 

Cerchiamo innanzitutto di fare un po’ di chiarezza sui termini.

L’ unconventional marketing è l’insieme di tecniche e strumenti promozionali alternativi che fanno leva sulla creatività e sul fattore “sorpresa” per raggiungere e impressionare il pubblico. La finalità non è tanto quella di attrarre l’attenzione e intrattenere, quanto di avviare e alimentare il passaparola intorno alla marca o al prodotto, così da accrescerne la notorietà e migliorarne la reputazione.
Con brand bravery, letteralmente “audacia/coraggio del marchio”, si intende invece l’uscita dalla comfort zone, l’abbandonare la via battuta per addentrarsi in territori inesplorati, mettendo da parte convenzioni e cliché, per dare spazio a innovazioni comunicative che stupiscano e catturino la potenziale buyer persona attraverso l’utilizzo di azioni e tone-of-voice non convenzionali.

Tra gli strumenti di unconventional marketing, il primo e più famoso è il guerrilla marketing, “un insieme di modi non convenzionali per raggiungere obiettivi tradizionali” e massimizzare i risultati, talvolta attraverso l’utilizzo di strumenti low-cost (minima spesa, massima resa).

La prima eclatante sperimentazione di guerrilla marketing risale al 1956 ed è firmata Generali Assicurazioni (al tempo AG), che si è guadagnata il titolo di pioniere dell’unconventional marketing grazie ad un’iniziativa tanto grandiosa quanto cost-effective: posizionare del becchime in piazza San Marco a Venezia in modo da attirare i piccioni e indurre gli ignari volatili (ben ripagati) a creare, con il loro raggruppamento, il logo della compagnia, in una delle piazze più famose ed iconiche d’Italia.

Quattro anni dopo, nel 1960, Coca Cola decise di entrare nel mercato italiano col botto e lo fece utilizzando l’idea di AG. Inutile dire che la versione “gasata” di questo evento divenne ben più popolare dell’originale.

E fu così che nacquero i trend della comunicazione, ma questa è un’altra storia!

Negli anni ’70, la Nestlé cercò in mille e più modi di penetrare il mercato nipponico, ma senza successo, finché non fu assunto Clotaire Rapaille che ideò una strategia a lungo termine. Dapprima vennero prodotti dessert al caffè che ottennero un discreto successo tra i bimbi giapponesi. Questi, crescendo, contribuirono a consolidare il consumo di questo prodotto, abbattendo così il monopolio del tè. Il risultato? Il Giappone ha il maggior tasso di crescita mondiale sul consumo di caffè: +30% tra il 1990 e il 2010.

Ed ora che abbiamo maturato una coscienza storica sull’argomento, torniamo ai giorni nostri – che, simpaticamente, chiameremo “Mediaevo” – quelli dell’avvento degli smartphone, della fruizione illimitata e gratuita di Internet, TV, social e app.  È su queste piattaforme infatti che troviamo casi di brand bravery e guerrilla marketing. Abbiamo cercato di raggruppare alcuni tra gli innumerevoli esempi in quattro macro categorie:

  1. GLI IRONICI, in questa categoria, ormai diventata un trend, troviamo diversi brand che hanno fatto dell’unconventional marketing la propria filosofia. Ricordiamo la satira autocelebrativa di Unieuro, in cui il social media manager dell’azienda ha creato la propria strategia usando la pagina Facebook per auto commentare i suoi stessi post, creando così una gag interattiva a cui tutti gli utenti del social hanno potuto prendere parte. Il caso, diventato subito virale, della lavatrice promossa attraverso le pagine Facebook come fossero un diario personale, con sfoghi decisamente comici, ha visto il social media manager di Unieuro trasformarsi in “uno di noi” e conquistarsi la simpatia dei follower, con 45 mila like e quasi 10 mila condivisioni. Un altro esempio di umorismo irriverente, ormai noto ai più, è quello di Taffo Funerals che risulta sempre attuale soprattutto grazie alla sua capacità di schierarsi, in maniera non scontata, tagliente, ma decisamente faceta, a favore di campagne socialmente utili. Non da meno, il memejacking di Durex che, come Taffo, utilizza i temi caldi del momento per promuovere i propri prodotti, ma rendendosi al contempo socialmente utile, offrendo dell’educazione sessuale in pillole, creando maggiore consapevolezza con l’ausilio di una sana risata.
  2. GLI “HIGH IMPACT” – questo gruppo, al quale appartengono i brand che hanno fatto leva sull’“effetto sorpresa” per impressionare le proprie audience, è caratterizzato da approcci variegati e spesso molto diversi tra loro. Burger King, ad esempio, ha puntato sul disgusto e con la foto di un panino ammuffito ha perfino vinto un premio per il marketing! Emirates ha deciso, invece, di “puntare in alto” con un approccio spericolato girando uno spot sulla cima del Burj Khalifa (il grattacielo più alto del mondo, 829,80 m). Il successo è arrivato anche, e soprattutto, per l’ambiguità della clip che ha scatenato non pochi dubbi sulla sua autenticità. Erano riprese reali o frutto di attenta postproduzione? Ebbene, alla fine l’arcano è stato svelato, era tutto vero. A testimoniarlo i video del backstage.
  3. GLI ONLIFE – Altra categoria interessante è quella di coloro che puntano sul fattore WOW nella vita reale; poi il tutto viene documentato e postato sui canali social – non dimentichiamoci che siamo nel Mediaevo! A questa classe appartengono Anya Jackson, stagista da Thursday che, con sole 25 sterline e una gran faccia di bronzo (è un complimento), ha raggiunto lo sfidante obiettivo di ottenere più di 1000 download e Red Bull che, per il lancio sul mercato londinese della famosa bibita energizzante, decise di posizionare un enorme numero di lattine vuote in tutta Londra creando l’illusione che la domanda e il consumo del prodotto fossero altissimi. Con questo stratagemma cost-less, usando i suoi stessi rifiuti, Red Bull fece schizzare le proprie vendite alle stelle.
  4. QUELLI CHE “I DO IT BETTER”, un esempio strabiliante è il geniale, ed anche un pizzico provocatorio, spot di Audi e, ancora, Burger King che lanciò una app, “BURN THAT AD”, che permetteva agli utenti di “bruciare” le pubblicità dei suoi rivali in cambio di un Whopper gratis. Risultato? 400.000 ads rivali “bruciate” e aumento del 54,6% delle vendite in-app, un colpo da maestri che gli ha permesso, in tutti i sensi, di incenerire la concorrenza!

Per rispondere alla domanda se possa o meno valere la pena investire nel marketing non convenzionale, sulla base del successo di molti brand che ci hanno provato, potremmo dire: sì, purché con qualche accorgimento.

Questo approccio può certamente comportare qualche rischio, ma nel marketing e nella comunicazione il coraggio è spesso catalizzatore di successo, un vero e proprio “booster” per la creatività, in grado di far guadagnare un netto vantaggio competitivo sulla concorrenza.

Detto ciò, è bene ricordare che anche la creatività, se non saldamente ancorata ai valori del brand, rischia di ridursi ad un mero esercizio di stile, fine a sé stesso e non assimilabile alla dimensione esperienziale ed emozionale dell’azienda o dell’organizzazione. Per aggiungere efficacia all’effetto “wow” occorre, quindi, restare fedeli alla brand promise (gli impegni assunti nei confronti delle proprie audience).

Inoltre, i brand che hanno riscosso maggiore successo abbracciando un approccio ardito (brand bravery) hanno saputo offrire soluzioni ai problemi dei loro clienti, con l’aggiunta di una dose extra di audacia, creatività e stupore.  Il messaggio che hanno trasmesso è stato: “non siamo qui per vendere, ma per esserti utili o per sostenere una causa”. Brand bravery e purpose sono quindi un’accoppiata vincente. Per dirla con le parole di Simon Sinek, “la gente non compra quello che fai, compra il perché lo fai”. Qual è la tua causa, qual è il tuo scopo, quali sono i valori in cui credi?

Consacrarsi al cambiamento non basta, occorre porsi domande, talvolta scomode, ed essere disposti a trovare le risposte avventurandosi in acque profonde e inesplorate. Un modo per non perdersi negli abissi, come consigliano Paul Kemp-Robertson e Chris Barth, autori di “Brand Bravery – i dieci comandamenti del coraggio” è quello di destinare una piccola quota di budget, ad esempio il 5%, alla sperimentazione e considerare il fallimento come parte necessaria del processo. In questo modo è possibile mantenere viva la fiamma della curiosità, riducendo il rischio di bruciarsi e, piuttosto, come ci ha insegnato Burger King, bruciare la concorrenza!

 

Articolo a cura di Chiara Uzzanu e Alessandra Malvermi

 

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