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Il ruolo dei social media nelle narrazioni di cronaca: il caso Donald Trump

Disinformazione digitale

L’utilizzo dei social media per la diffusione di informazione, o meglio disinformazione, è un argomento sempre attuale che di anno in anno ci fornisce nuovi spunti per capirne gli effetti negativi. Ne avevamo parlato anche a proposito dei 10 Social Media Trend del 2021, in cui si preannunciavano provvedimenti da parte delle piattaforme social per limitare la diffusione di fake news.
A pochi giorni dall’inizio del 2021, a causa degli attacchi a Capitol Hill, questi interventi sono stati messi in campo nella forma più estrema: l’eliminazione del profilo dell’ex presidente Donald Trump. Nell’articolo di oggi ho voluto affrontare questo aspetto utilizzando proprio l’attacco a Capitol Hill, conclusione tragica di un processo di disinformazione digitale avviato con le elezioni presidenziali del 2016.

Dalle elezioni 2016 a Capitol Hill

Delle elezioni presidenziali del 2016 tutti ricordano due aspetti: il primo, la quantità di informazioni false che il candidato Donald Trump diffuse sui suoi profili social; il secondo, il ruolo fondamentale che proprio questi ultimi giocarono per la vittoria. Infatti, mentre i sondaggi vedevano Hilary Clinton vincitrice già dichiarata, Trump sui social accumulava approvazione, grazie ad una campagna di diffusione di fake news (che ottennero un engagement di 8.7 milioni) e discriminazione che, come delle echo chambers, facevano leva su quella parte di popolo americano che in questi post vedeva condiviso il proprio pensiero.

La vittoria del noto imprenditore arrivò, allora, del tutto inaspettata ma fu fondamentale per comprendere il potenziale politico, e forse propagandistico, dei social media. Fu lo stesso Trump a sottolineare l’importanza dei social network per la sua vittoria, e a farli diventare negli anni della presidenza il suo canale di comunicazione ufficiale, Twitter in primis. Nei primi anni Trump ha twittato circa 18 volte al giorno, e retwittato circa un centinaio di post fino a raggiungere il record di 124 tweet in un giorno (dal 2016 al 2020).
Più che per la quantità di post, il presidente è stato spesso criticato per il loro contenuto: oltre a diffondere informazioni circa i suoi emendamenti, Trump ha utilizzato i social per messaggi populisti, di violenza, di discriminazione. Si alternavano post in cui sosteneva teorie complottiste a post in cui negava di aver sostenuto tali teorie. Il suo atteggiamento ha spesso portato a situazioni di pericolo, specie negli ultimi mesi.

La prima critica ai grandi network è nata da qui: le persone non hanno gli strumenti per riconoscere una notizia vera da ciò che non lo è, e i dirigenti non hanno mai agito oscurando i post di Trump o segnalando l’impossibilità di verificare i fatti. Non fino alla primavera del 2020 quando, in piena campagna elettorale il presidente iniziava a sostenere che il voto postale avrebbe falsato l’esito delle elezioni.  Da quel momento Twitter e Facebook inseriscono sotto i post del presidente un messaggio in cui segnalano la presenza di notizie false o non sostenute da fatti con lo scopo di evitare la diffusione di fake news che avrebbero potuto compromettere le elezioni; e continuano anche dopo novembre 2020 quando il presidente Trump ha perso le elezioni contro Biden. La presenza di questo messaggio, comunque, non limitava in alcun modo l’utilizzo delle piattaforme e Trump ha continuato a postare e a diffondere odio fino a che, davanti agli attacchi al Campidoglio non sono stati presi provvedimenti più severi. Facebook, Instragram e Youtube sono intervenuti dopo qualche ora bloccando il profilo dell’ex presidente a tempo indeterminato. Twitter, invece, ha inizialmente oscurato i post, e poi nei giorni scorsi ha eliminato definitivamente il profilo.

Qui arriva la seconda accusa ai dirigenti delle piattaforme social circa la non tempestività della rimozione dei post. Ma l’accusa più grave è quella secondo cui tutto ciò si sarebbe potuto evitare. Difatti tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 sono stati numerosi i post e le pagine, non solo sulle grandi piattaforme, ma anche su networks come Twitch, Parler e Telegram, in cui gli utenti parlavano apertamente di organizzare un assalto per bloccare l’ufficializzazione della vittoria di Biden, senza che questo comportasse   alcun intervento da parte delle piattaforme o della polizia. La critica si estende inoltre al fatto che le piattaforme abbiano continuato, anche durante l’attacco a Capitol Hill, a dare spazio ad utenti che, attrezzati di videocamere e telefoni trasmettevano l’assalto in diretta.

Il ruolo chiave dei social network in questa vicenda è innegabile, ma c’è chi sostiene che non sia attribuibile ad essi la colpa di quanto successo. È infatti opinione di molti che non dovrebbe essere affidato ai dirigenti dei social network il compito di stabilire le modalità di espressione di un pensiero, giusto o sbagliato che sia, ma che sia compito delle istituzioni intervenire e fornire agli utenti strumenti adeguati per riconoscere le fake news.

Quello che è certo è che quanto accaduto a Washington è la conclusione della parentesi politica social trumpiana e la dimostrazione di quello che succede quando si è sottoposti per anni alla disinformazione digitale. Le grandi piattaforme possono fare un primo passo per limitare questo fenomeno applicando più tempestivamente e con severità le proprie policy.

 

Articolo di Valentina Boccuni

 

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