
Dall’“influencer marketing” alla community: come il deinfluencing sta riscrivendo il rapporto tra brand e creator
Dalle vanity metrics alle conversazioni rilevanti: quando il digitale inizia a ragionare come le relazioni pubbliche
Negli ultimi anni il rapporto tra brand e influencer ha iniziato a scricchiolare. Non perché i creator abbiano perso rilevanza, ma perché è cambiato il modo in cui le persone si fidano, scelgono, raccomandano. Il fenomeno del deinfluencing – creator che invitano esplicitamente a non acquistare prodotti inutili o sovraesposti – è solo la punta dell’iceberg di un cambio di paradigma più profondo.
Oggi parlare di influencer marketing come se fosse un canale puramente commerciale suona sempre più anacronistico: i brand che si limitano a comprare visibilità rischiano di perdere ciò che davvero conta, cioè la relazione. E qui il digitale inizia ad assomigliare molto alle relazioni pubbliche: meno push, più ascolto; meno spot, più dialogo; meno numeri vuoti, più valore condiviso.
Perché l’etichetta “influencer marketing” non basta più
L’idea originaria era semplice: associare un volto riconoscibile a un prodotto per aumentare le vendite. Ma lo scenario è radicalmente cambiato:
- gli utenti sono più consapevoli e allenati a riconoscere contenuti sponsorizzati;
- i feed sono saturi di messaggi “compra ora”, sconti, codici promo;
- l’algoritmo premia la rilevanza e la qualità delle interazioni, più che il semplice reach.
In parallelo si sono affermate nuove figure: dai virtual influencer creati in CGI, che offrono ai brand controllo totale sull’immagine ma meno autenticità, ai micro e nano creator iper-nicchia, scelti per la fiducia che generano nelle loro community.
In questo contesto, limitarsi a “fare influencer marketing” significa ragionare ancora in termini di campagna e non di relazione.
Deinfluencing: un campanello d’allarme (utile) per i brand
Il deinfluencing nasce come reazione all’iperconsumo: creator che spiegano perché certi prodotti non valgono l’hype, suggeriscono alternative più accessibili o invitano a comprare meno e meglio.
Per i brand può sembrare una minaccia, in realtà è un potente reality check:
- mette in discussione logiche basate solo sulla pressione commerciale;
- spinge le aziende a lavorare su qualità, coerenza e trasparenza;
- obbliga a ripensare la narrativa: meno promessa, più prova concreta.
In altre parole, il deinfluencing riporta l’attenzione sul perché una persona dovrebbe fidarsi di un brand. E questo è esattamente il terreno naturale delle PR: costruire nel tempo reputazione, credibilità e legami di fiducia.
Dalle metriche alla creazione di valore: community first
Per anni il focus è stato sulle vanity metrics:
- numero di follower;
- impression totali;
- visualizzazioni del contenuto;
- clic sul link con codice sconto.
Numeri utili, ma sempre più parziali. Oggi la domanda chiave è diversa: che tipo di relazione stiamo costruendo con questa community?
La logica si ribalta:
- non più “quanti mi vedono”, ma “chi mi ascolta davvero e perché”;
- non più “quante persone raggiungo”, ma “quante persone restano”;
- non più “quanti contenuti produco”, ma “quante conversazioni attivo”.
È la stessa direzione che sta spingendo la crescita dei prosocial, piattaforme che mettono al centro autenticità, rispetto e benessere digitale, privilegiando la qualità delle interazioni rispetto al volume dei follower.
Per i brand questo significa trattare i creator non come spazi adv a pagamento, ma come partner con cui costruire – passo dopo passo – community vive, coinvolte e consapevoli.
Quando il digitale ragiona come le PR
La trasformazione in corso porta il digitale sempre più vicino alla logica delle relazioni pubbliche:
- ascolto prima, messaggio dopo – social listening, analisi delle conversazioni, studio dei bisogni reali delle community per costruire messaggi pertinenti e non intrusivi;
- relazioni di lungo periodo – collaborazioni continuative con creator affini per valori e visione, invece di collaborazioni spot orientate solo alla promozione;
- coerenza narrativa – ogni contenuto deve riflettere la filosofia del brand, i messaggi chiave e la sua identità, non solo l’ultima promo in calendario;
- capitale relazionale – come nelle media relations, anche nel lavoro con i creator il vero asset è la qualità della relazione, non il singolo post.
Le agenzie di PR possono giocare un ruolo strategico: aiutare i brand a ripensare i progetti con influencer dentro una cornice più ampia di storytelling, brand reputation e stakeholder engagement.
5 mosse strategiche per ripensare il rapporto tra brand e influencer
Ecco alcuni passaggi chiave per passare dal puro influencer marketing a una vera creator & community strategy:
- Mappare l’ecosistema, non solo i profili
Non basta selezionare creator con “match” demografico: bisogna capire in quale ecosistema di conversazioni si muovono:
- quali temi trattano con continuità;
- quali valori difendono;
- come reagisce la loro community quando parlano di brand;
- con chi dialogano (altri creator, media, community locali, ONG…).
È un lavoro che ricorda la mappatura degli stakeholder tipica delle PR: solo conoscendo bene il contesto si possono costruire relazioni efficaci.
- Co-creare contenuti, non solo brieffare
Il contenuto più efficace non è quello perfettamente allineato alla brand guideline, ma quello in cui la community riconosce la voce autentica del creator.
Per questo:
- il brief va impostato come cornice, non come storyboard rigido;
- i messaggi chiave vengono definiti insieme, integrando linguaggi e sensibilità;
- si lascia spazio a formati e toni che funzionano davvero su quel canale.
La logica è quella della co-creazione: si costruisce valore insieme, non lo si “compra” a pacchetto.
- Integrare media relations, social e creator
Le campagne più solide sono quelle in cui influencer, media, canali proprietari e community lavorano all’unisono.
Alcuni esempi di integrazione:
- case study e storie di impatto raccontate sia dai creator che dai media di settore;
- eventi ibridi (online/offline) dove creator, giornalisti e stakeholder vivono la stessa experience e la declinano con linguaggi diversi;
- podcast, newsletter e contenuti long form che approfondiscono i temi emersi dalle conversazioni sui social.
In questo modo il brand smette di rincorrere la visibilità e inizia a costruire una narrativa coerente, che si rafforza di canale in canale.
- Lavorare su etica, trasparenza e responsabilità
In un contesto segnato da deinfluencing, prosocial e crescente attenzione alla sostenibilità e all’etica, i brand devono dimostrare coerenza tra ciò che dicono e ciò che fanno.
Concretamente significa:
- essere trasparenti su partnership, compensi, logiche di selezione dei creator;
- evitare pratiche opache o borderline (come pressioni sul tono delle recensioni);
- scegliere creator che condividano davvero i valori del brand, non solo l’estetica.
Questo tipo di scelte rafforza la brand reputation, anche a costo di rinunciare a qualche numero a breve termine.
- Ridefinire i KPI: dalla quantità alla qualità
Se l’obiettivo è costruire community e relazioni, anche la misurazione deve cambiare. Alcuni KPI possibili:
- tasso di engagement qualitativo (commenti pertinenti, discussioni, domande, non solo like);
- sentiment delle conversazioni e delle menzioni del brand nel tempo;
- numero di contenuti spontanei generati dalla community (UGC);
- retention delle persone coinvolte nelle attività (iscrizioni a newsletter, partecipazione ad eventi, community chiuse);
- evoluzione della percezione del brand su temi chiave: fiducia, competenza, responsabilità sociale .
Non si tratta di abbandonare i dati, ma di usare metriche che riflettano il valore reale della relazione, non solo l’impatto superficiale.
Il ruolo delle PR in questa nuova fase
In questa transizione dall’influencer marketing ad una strategia di community e creator, le relazioni pubbliche diventano il tessuto connettivo:
- aiutano i brand a definire una brand narrative chiara, coerente e sostenibile nel tempo;
- progettano relazioni di lungo periodo con stakeholder diversi: creator, media, community locali, istituzioni;
- affiancano le aziende nella gestione dei momenti sensibili: crisi, backlash, critiche pubbliche, campagne di deinfluencing.
L’obiettivo non è “contrastare” il deinfluencing, ma ascoltarlo, capire cosa rivela delle aspettative delle persone e trasformarlo in occasione per migliorare prodotti, processi e comunicazione.
Dalle vanity metrics alle relazioni che restano
Il rapporto tra brand e influencer non sta finendo: sta semplicemente crescendo. Si sposta dal terreno delle vanity metrics a quello, molto più impegnativo ma strategico, della fiducia.
Chi continuerà a vedere i creator solo come un canale in più per fare promozioni rischia di rimanere intrappolato in cicli di breve periodo.
Chi invece li considererà partner nella costruzione di community e conversazioni rilevanti potrà usare il digitale come alleato delle relazioni pubbliche: meno rumore, più relazione; meno hype, più valore condiviso; meno “compra ora”, più “costruiamo qualcosa che abbia senso, insieme”.
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Da anni in Sound PR affianchiamo i brand in questo cambio di prospettiva: dal semplice influencer marketing a strategie integrate di relazioni pubbliche, creator e community. Progettiamo percorsi che mettono al centro la reputazione, la coerenza narrativa e il dialogo con le persone, molto prima delle vanity metrics.
Lavoriamo con le aziende per:
- definire una brand narrative chiara e distintiva;
- selezionare e coinvolgere i creator più affini per valori e visione;
- progettare contenuti e attivazioni capaci di generare conversazioni rilevanti;
- misurare non solo la visibilità, ma il reale impatto sulle relazioni e sulla brand reputation.
Se vuoi ripensare il rapporto del tuo brand con influencer e creator in un’ottica di community, valore condiviso e relazioni durature, contattaci per costruire insieme una strategia su misura per i tuoi obiettivi.
Articolo a cura di Alessandra Malvermi
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